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lunedì 23 agosto 2010

Sherlock Holmes


Sul finire dell’Ottocento, Londra è una città affascinante e pericolosa. Le novità tecnologiche attirano i cittadini più curiosi, ma il richiamo per l’occulto e il soprannaturale è altrettanto forte. Quando Sherlock Holmes e il fido dottor Watson consegnano l’assassino di giovani donne Lord Blackwood alla giustizia e, dopo aver assistito all’esecuzione capitale, assistono non di meno alla sua apparente resurrezione, Holmes è felice di potersi finalmente interessare di qualcosa alla sua portata. Tanto più che si è ripresentata a lui la bella Irene Adler, chiedendo il ritrovamento di un uomo che si scoprirà interrato nella bara di Blackwood. I casi si intrecciano, si aggrovigliano, sporcano gli abiti di fumo e di avventura. Guy Ritchie punta su un indirizzo ambizioso: 221B, Baker Street. Lente d’ingrandimento alla mano, smette di farsi sedurre dall’eccentricità per accumulazione (i tanti personaggi delle pellicole precedenti) e la trova, purissima, per “concentrazione” nella figura di Sherlock Holmes, così come fece capolino inizialmente sulle pagine di Conan Doyle, prima di rifarsi trucco e parrucco in seguito alle ingerenze dei lettori, della storia, della leggenda e del cinema stesso. Un uomo di straordinario acume e ugual passione per l’azione, ordinato mentalmente come nessun altro (se n’è fatto un “metodo”), che vive da bohemien nel disordine dei ritagli di giornale (la cronaca scandalistica), della polvere (bianca?) e dell’assenza di regolari abitudini, scazzottando alla bisogna a mani nude. Questo ritorno alle origini del personaggio –benché poi la sceneggiatura segua un plot originale- è una prima evidenza a favore del lavoro di Ritchie. Seconda, ma intimamente connessa, viene la scelta degli interpreti: il nuovo Holmes emerge, coerente e vigoroso, dalla zona di intersezione e sovrapposizione tra le caratteristiche romanzesche del detective di Conan Doyle e quelle reali e “biofilmografiche” di Robert Downey Jr., talento istrionico, uomo intelligente e contraddittorio, paladino iron(ico), non privo di invadenti fantasmi e noti (alle cronache) trascorsi. Al suo fianco, Jude Law è un dottor Watson con personalità, un passo indietro in quanto a genialità e spavalderia ma complice sincero, coinquilino avvenente, braccio (destro) e spalla (fuori e dentro la finzione) che valgono bene una scenata di gelosia, un tocco di isterismo, una manciata di voluta ambiguità. Rachel Mc Adams, infine, è “la donna”, furba e traditrice, unica fonte femminile di interesse per il nostro, in quanto caso irrisolvibile, abitante di quel territorio del diavolo – la criminalità elegante e scaltra – con cui il protagonista flirta tanto piacevolmente. Ma uno più uno, questa volta, non fa un due pieno. Qualche spacconeria di sceneggiatura, non poche lungaggini, dialoghi che promettono ma non conquistano, fermano lo spettatore dal fregarsi le mani e gli lasciano sul viso un sorrisetto sarcastico. Alla Holmes.

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