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lunedì 23 agosto 2010

deathrace


United States, 2012. Jensen Ames è un ex carcerato che vorrebbe rimanere fuori dal giro con un lavoro onesto, una moglie comprensiva e una bambina nata dalla loro unione. I tempi sono difficili, la crisi finanziaria in cui versa il paese crea tensioni e affama i cittadini che trovano negli sport estremi una via di fuga agli affanni quotidiani. Dopo essere stato licenziato e aver ritirato l’ultimo stipendio, Jensen torna a casa dove viene aggredito e abbattuto con un narcotico. Al risveglio stringe un coltello al fianco della moglie ferita a morte. Arrestato e innocente, viene condotto a Terminal Island, un penitenziario di massima sicurezza in mezzo all’oceano. Ingaggiato dall’algida direttrice Warden Hennessey, disputerà una gara di automobili tecnicamente modificate e armate di mitraglie e lanciafiamme. Costretto a gareggiare con l’identità e la maschera di Frank(enstein), un ex detenuto pilota morto in un incidente, Jensen dovrà vincere la corsa in cambio della libertà. Ma le automobili della “death race” non saranno l’unica cosa truccata dentro un gioco spedito e sporco.
Accade a Hollywood che un film mainstream non limiti l’azione al roboante fragore di esplosioni, a prestazioni acrobatiche e ad effetti sonori aberranti ma al contrario, alla faccia dell’immortale pregiudizio nei confronti del cinema popolare e di consumo, torni a (saper) fare dell’inseguimento un’arte.
Con Death Race Paul W.S. Anderson, benedetto e “assistito” da Roger Corman, dimostra che ad Hollywood c’è ancora qualcuno in grado di raccontare un inseguimento, di inquadrare due soggetti differenti coinvolti nella stessa azione, di mettere a punto le regole di apparizione nell’inquadratura (le entrate e le uscite), di posizionare la macchina da presa e comprendere l’importanza dello spettacolo tecnologico e del richiamo catastrofico, che sono tra le pulsioni più insondabili e irrinunciabili del cinema.
Consapevole del ruolo dell’inseguimento nella storia dell’immaginario cinematografico, il regista che ha procurato a Raul Bova una morte alienante e vischiosa (Alien vs Predator) ha messo in pratica il patrimonio di conoscenza tecnica del genere e in pista il fumo delle gomme in accelerazione, il boato di trecento cavalli motore e le potenti frenate per entrare in curva. È la fuga, intesa come evasione, come inseguimento e come uscita dal circuito, a impostare il racconto in precise traiettorie geometriche e in movimenti veloci all’interno di un mondo circoscritto: Terminal Island.
Death Race cambia l’assetto del film d’azione per adattarlo a un prison movie che, quando non corre sulla pista, procede a passo d’uomo lungo il cortile del penitenziario, attraverso i suoi corridori fino all’ufficio della direttrice, regista cinica della gara e giudice supremo della vita o della morte dei piloti detenuti. Il più scaltro e veloce è il Jensen Ames di Jason Statham, incontrato all’inizio di una nuova vita che gli viene preclusa un attimo prima che riesca a varcarne la soglia. Ames è il mostro creato da una lady velenosa e costretto ad inseguire la libertà sul circuito, una creatura che eredita maschera e cicatrici dal Frankenstein di David Carradine (Anno 2000. La corsa della morte). La sua nemesi è la direttrice bionda di Joan Allen, che si pone magnificamente sotto il segno della menzogna e della durezza antisentimentale. Le macchine ritoccate di Anderson rivaleggiano e si sorpassano senza mai superare il ruolo riservato ai corpi, che concepiscono l’esecuzione del piano di fuga e accelerano lungo i vertiginosi punti di fuga. Date gas e godetevi il piacere del cinema e la gioia fisica del कौन्त्दोव्न

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